È innegabile, gli edifici abbandonati hanno un fascino irresistibile. Entrare in punta di piedi in un mondo che non appartiene più al presente è emozionante ed entusiasmante. Questa volta però non vogliamo raccontarvi solo la storia di un luogo che suscita interesse ed accende la curiosità. Con questo articolo vorremmo accompagnarvi a conoscere gli ambasciatori della dignità umana, laddove l’umanità non sempre è stata rispettata. Persone che con i loro racconti sono state capaci di farci immergere in maniera quasi totalizzante in storie e persone appartenenti ad un’altra epoca. Ringraziamo dunque di cuore i volontari dell’associazione ONLUS “Inclusione Graffio e Parola”, così come i membri dell’associazione culturale “I luoghi dell’abbandono” che hanno reso possibile la visita all’Ex Manicomio di Volterra. Grazie a loro abbiamo appreso più nel dettaglio la storia di Fernando Oreste Nannetti, conosciuto nel mondo con lo pseudonimo di NOF4, che nell’ex manicomio ha trascorso gran parte della propria esistenza.
Una visita che non puo’ lasciare indifferenti e che porta a tante riflessioni ed interrogativi, che accende la voglia di sapere ed il desiderio che quanto abbiamo imparato diventi fruibile ad un numero sempre maggiore di persone. E così vogliamo raccontarvi di questa toccante esperienza, nella speranza di portare avanti il compito di Nannetti e dei volontari, che si sono fatti ambasciatori della memoria e della dignità umana.
Nascita del Manicomio di Volterra
La nascita dei manicomi in Italia risale alle fine del 1800. In quegli anni in Toscana il numero degli istituti era molto limitato, accadeva così che la provincia di Pisa dovesse inviare i propri malati presso l’Ospedale San Niccolò di Siena. Per ogni malato Pisa doveva pagare una retta di 1,50 £ al giorno, ma volendo risparmiare iniziò a cercare un istituto che permettesse di ridurre le spese. Fu allora che intervenne Volterra, offrendosi di ospitare i malati di Pisa per 1 sola lira di retta. Volterra poteva permettersi un prezzo così concorrenziale perché nel proprio territorio ospitava le Saline ed era pertanto esclusa dal pagamento della tassa sul sale. Iniziò dunque ad ospitare i malati provenienti da altre province. Quando Pisa decise di fare tutto “in casa” e riportare i propri malati nel territorio, trasferendoli presso la Certosa di Calci, ormai Volterra aveva fiutato il business. Era chiaro che se voleva ottenere dei guadagni sempre maggiori doveva ampliare i propri spazi ed aumentare il numero dei pazienti.
Scabia ed il “No-restrainct”
Ai tempi il direttore del Manicomio di Volterra, soprannominato ancor meno dignitosamente “Asilo dei dementi”, era il dottor Scabia. Il direttore fu uno dei primi a credere nell’ergoterapia, una terapia occupazionale, che si pensava giovasse alla salute dei pazienti, i quali, tenendosi occupati, diventavano meno aggressivi. Per questo, all’interno del nuovo complesso, Scabia fece costruire molti edifici come la panetteria, la lavanderia, la falegnameria o la fornace, dove i degenti del manicomio venivano impiegati. Molti dei nuovi edifici furono costruiti proprio grazie all’utilizzo dell’ergoterapia ed all’impiego dei pazienti come “forza lavoro”. Scabia progettò anche la distribuzione dei diversi padiglioni, che dovevano essere posizionati in maniera irregolare sul territorio ed avere stanze grandi, aerate e ben illuminate. Questi criteri rispondevano alla terapia definita del “No-restrainct” secondo la quale i malati non dovevano percepire l’idea di costrizione. I mezzi di contenzione fisica dovevano essere ridotti al minimo ed i pazienti dovevano sentirsi liberi di girare per il villaggio-manicomio, lavorare, ed avere una vita “autonoma”.
La nascita dei padiglioni di contenimento
Negli anni la politica processata da Scabia subì degli irrigidimenti, non dovuti al suo volere, ma a pressioni esterne (le stesse che lo portarono ad anticipare il pensionamento). Scabia dovette accettare la costituzione di almeno 3 padiglioni di costrizione: Charcot, Maragliano e Ferri. Quest’utimo in particolare nacque come un vero e proprio ospedale criminale giudiziario per ospitare i malati che avevano commesso dei reati. Dopo le opere di ampliamento i “malati” passarono dai 300 di inizio ‘900 ai quasi 5000 del 1938 ed i padiglioni raggiunsero quota 40: 15 usati per i laboratori, gli altri per la degenza dei pazienti.
Chi erano i “matti”?
Prima di iniziare la visita la nostra guida, un volontario dell’associazione “Inclusione Graffio e Parola“, ha posto l’attenzione su un fatto molto importante. Chi erano i “matti”? Chi finiva in manicomio? Ai tempi si entrava per le ragioni più disparate. Soffrire di una patologia mentale non era affatto necessario per ritrovarsi rinchiusi all’interno dell’Ospedale Psichiatrico. Se una famiglia era troppo numerosa (e povera) era normale che affidasse alcuni dei propri figli al manicomio; stessa sorte che toccava ai figli malati dei quali non ci si poteva occupare, agli orfani, alle prostitute, a chi aveva problemi con la giustizia ed a chi, in stato di ubriachezza, creava un po’ di problemi.
Poteva capitare che qualcuno, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, si risvegliase legato ad un letto del manicomio. Tanto, per essere ricoverati, bastava la firma di un medico che attestasse la “pericolosità del malato per séF stesso e per gli altri”. Non c’erano visite specialistiche o particolari controlli che impedissero a certi malcapitati di finire internati. Chi veniva fermato dalla polizia poteva finire richiuso, senza poter ricorrere al sistema di garanzie processuali che ogni democrazia dovrebbe garantire. Immaginatevi di risvegliarvi in un letto, con i polsi legati, senza potervi muovere e senza nessuno che vi dica cosa sia successo. Probabilmente anche voi iniziereste ad agitarvi, ad arrabbiarvi, e non fareste altro che confermare quella presunta accusa di pericolosità! In manicomio anche le persone che la società era pronta ad etichettare come le più “normali” divenivano facilmente “pazze”.
La storia più assurda dell’ex manicomio di Volterra arriva però dal Reparto Ramazzini. Per un certo periodo questo padiglione ospitò un’intera comunità di sardi. L’unica loro “colpa”? Parlare in dialetto stretto, senza conoscere l’italiano. Una volta sbarcati al porto di Pisa nessuno era in grado di capire cosa dicessero e così vennero presi ed internati. Adesso capite chi sono i veri “matti”? Si narra che li abbia poi salvati un nuovo dottore del manicomio che capì da subito l’errore grossolano. Anche lui veniva dalla Sardegna, ma aveva avuto l’opportunità di studiare l’italiano…
In Manicomio si entra…ma non si esce
Il primo edificio di cui i malati facevano la conoscenza era la cosiddetta “Fagotteria”, che oggi ospita il museo. Qui si lasciavano i propri averi in un fagotto (dal quale prendeva il nome l’edificio) e veniva assegnato un numero identificativo. Da quel momento non si era più una persona, ma un numero, e quel numero si sostituiva al nome fino alla fine dei giorni…ed oltre. Non sappiamo a voi, ma a noi questo fatto ci riporta immediatamente con la mente ai campi di concentramento nazisti. Nel Cimitero di San Finocchi è ancor oggi possibile vedere delle strane lapidi, prive di nome, di data di nascita o di morte. In queste lapidi possiamo osservare solo un numero ad identificare la persona che giace sotto terra. Solo in rari casi i familiari “riconoscevano” il defunto e decidevano di restituirgli il proprio nome e la propria dignità, almeno da morto. Il cimitero di San Finocchi si trova sulla Strada Vicinale di Ulimeto, a circa 3 km dal complesso dell’ex manicomio di Volterra.
La visita al Manicomio di Volterra – Il Padiglione Charcot
In seguito all’emendamento della legge Basaglia del 1978, ed a causa della forte diminuzione del numero degli internati, il Manicomio di Volterra iniziò una fase di decadimento che ha visto la natura riappropriarsi delle palazzine cadute in disuso ed in parte crollate. Il primo padiglione che abbiamo visitato è lo Charcot, che inizialmente ospitava le donne che si occupavano dell’orto e della lavanderia, per poi divenire un edificio di contenimento. Entriamo al suo interno, accolti da stanze buie, dall’odore della muffa e dalla vista delle piccole camere che ospitavano i pazienti. In ognuna di esse potevano stare fino a 10 persone e nessun oggetto personale. Ai degenti con problemi di vista venivano requisiti anche gli occhiali, così da non lasciargli più nemmeno un briciolo di normalità. Oggi delle stanze non resta che il ricordo, mentre alcune foto e manichini fanno le veci di chi qui trascorse la propria esistenza.
Siamo circondati dalle tante persone che stanno partecipando alla visita guidata, ma quando ci attardiamo per un attimo per scattare una foto veniamo accolti da una strana sensazione di solitudine. Proviamo ad immaginarci cosa potesse significare essere costretti qua. Anche se Scabia fece il possibile per rendere il manicomio un luogo vivibile, dopo di lui ci furono anche tempi molto bui, i tempi dell’isolamento, dell’elettroshock e della lobotomia. Queste mura sono state testimoni silenziose di inenarrabili sofferenze ed avere la possibilità di visitarle apre la mente su tanti quesiti. Cos’è la normalità? Chi è normale? Chi permetteva tutto ciò lo era più di chi lo subiva?
Corrispondenza negata
Durante la visita al Padiglione Charcot raggiungiamo la Sala degli Aranci. In questa sala, nel periodo in cui Scabia dirigeva il manicomio di Volterra, si svolgevano delle feste, come il celebre “Carnevale dei Matti”. Questi erano gli unici momenti di svago per i degenti, privati anche dell’affetto della famiglia. Una volta entrati in manicomio si veniva dimenticati e le visite dei familiari non erano consentite. C’è da dire che ai “malati” veniva concesso di scrivere delle lettere, più per sfogo che per altro, perché poi non sarebbero mai state recapitate. Forse nel momento più toccante della visita, Gianni Calastri ci ha letto alcune di queste lettere mai giunte a destinazione.
Dalle parole emergeva tutto il dolore e la necessità di capire come mai fosse toccato loro questo destino crudele. Ci ha particolarmente colpito quella di un giovane ragazzo di 19 anni che non si spiega il motivo di una punizione così grave e duratura a quelle che potrebbero essere definite delle semplici “marachelle” da bambino. Oppure la lettera del malato, quasi risentito, ma allo stesso tempo preoccupato, perché è già la terza volta che scrive a casa e non riceve risposta dai genitori. Tante testimonianze delle ingiustizie subite, della tristezza provata e della perdita di ogni diritto.
La visita al Manicomio di Volterra – Il Padiglione Ferri
Lasciato il padiglione Charcot passiamo davanti al Maragliano (che ospitava i malati di tubercolosi), oggi quasi totalmente inglobato dalla vegetazione, ed arriviamo al Ferri. In questo padiglione finiva chi aveva avuto qualche guaio con la giustizia. Ciò non significava aver commesso gravi crimini, bastava un piccolo insulto ad un carabiniere per guadagnarsi un biglietto di sola andata per il Ferri. Fu proprio così che Fernando Oreste Nannetti, il famoso NOF4 del quale vi parlavamo inizialmente, venne ricoverato prima a Roma e poi, con suo grande dispiacere, spostato presso questo padiglione del Manicomio di Volterra.
Fernando viene universalmente riconosciuto come uno dei maggiori esponenti di Art Brut, un’arte prodotta senza la consapevolezza di fare arte. La sua opera più importante è nata proprio fra le mura dell’ex manicomio di Volterra o, per essere più precisi, SULLE sue mura. Un murales di 180 metri che decorava il cortile del Ferri, “un muro di reclusione che per Nannetti fu un diario di libertà” (cit. Andrea Trafeli). Un’opera con la quale urlare al mondo il proprio diritto ad esistere; una ricerca di dignità per sé stesso e per chi con lui condivideva la vita in manicomio.
L’importanza di quest’opera nel mondo dell’art Brut è paragonabile a quella della Gioconda per il Museo del Louvre a Parigi. Ad essa (ed al suo “pazzo” creatore) sono dedicate mostre e musei in tutto il mondo, anche se gran parte occupa ancora le mura in disfacimento del Ferri. Se non fosse stato per l’infermiere Aldo Trafeli, che ha passato la sua vita a promuovere e tradurre il graffito, probabilmente oggi non resterebbero altro che macerie.
Come nasce il Murales di NOF4
Andrea, figlio di Aldo Trafeli, ci accompagna nel cortile del Ferri, dove ad attenderci troviamo Remo Lenci. Assistiamo incantati alla rappresentazione teatrale “Io sono NOF” di Lenci, che unita alle spiegazioni di Andrea ci dà una visione completa e dettagliata dell’opera e del suo autore. Un momento magico che vi invitiamo a vivere in prima persona e che vi condurrà in punta di piedi in questo mondo fatto di scrittura, di carne e di persone come noi, spesso trattate come fantasmi.
Il murales occupava quasi interamente il cortile del Padiglione Ferri. Fernando, che trascorse qui circa 10 anni, quando usciva in cortile si sfilava la fibbia del panciotto e utilizzava la linguetta in metallo per incidere la parete. Senza Aldo Trafeli probabilmente quelle sul muro sarebbero rimaste parole prive di significato. L’infermiere però riuscì a conquistarsi la fiducia di Fernando, mostrando interesse per Roma, la sua città natale, ed ottenendo così la chiave di lettura di quest’importante opera. Un’opera che parla di dignità, di scoperte fantascientifiche, di famiglia e di tanto altro ancora. 10 anni per completare un’opera nella quale reclamava il proprio diritto (così come il diritto di chi con lui condivideva quel dolore) ad essere considerato al pari di altri esseri umani. Siamo persone e ci meritiamo di essere trattati con dignità.
Conservazione del Murales
Senza la presenza di Fernando e del suo murales probabilmente non avremmo mai partecipato a questa interessante visita. La sua opera, così come la memoria di questo importante personaggio, ha rischiato di scomparire per sempre. Ma fortunatamente esistono persone dotate di grande cuore e sensibilità, nonché di conoscenze artistiche. È questo il caso di Aldo Trafeli, l’infermiere grazie al quale l’opera di Nannetti si è salvata…
Alla fine degli anni ’70 il padiglione Ferri venne abbandonato ed iniziò il lento e inesorabile processo di sgretolamento al quale tutti gli edifici lasciati all’incuria sono soggetti. Un giorno crollò il tetto, un giorno le piante iniziarono a riappropriarsi del territorio sottratto loro molti anni prima. L’acqua, la pioggia, il sole ed i continui crolli misero a dura prova il murales di Fernando che rischiava di andare perduto per sempre. Ma l’infermiere ed amico Aldo Trafeli, dopo tutti gli anni impiegati a tradurre ed interpretare quell’importantissimo messaggio, non poteva abbandonarlo al suo destino. Dapprima chiese al fotografo Pier Nello Manoni di imprimere su pellicola quest’immenso lavoro, poi, dalla collaborazione con Mino Trafeli, nacque il libro “NOF4, il libro della vita”. Grazie al libro l’opera di Nannetti iniziò a volare fuori dai confini di pietra del cortile del Ferri. Ma Aldo non si fermò qui e continuo ad adoperarsi per salvare il murales anche dopo la chiusura del manicomio. Una tettoia protettiva venne posizionata a difesa delle incisioni di Fernando, ma non poteva bastare e molte parti sono crollate. Purtroppo, nel 2010, Aldo se n’è andato, ma la sua passione ed il suo impegno sono rimasti, portati avanti dai figli e dagli amici che hanno dato vita alla ONLUS “Inclusione Graffio e Parola”. L’associazione lavora dal 2010 per salvare il murales, facendolo conoscere nel mondo e destinando fondi per il distacco ed il ricollocamento presso la biblioteca-museo.
Il museo dell’ex manicomio di Volterra
La nostra visita si è conclusa al Museo del Manicomio di Volterra dove abbiamo potuto vedere la parte dell’opera che è già stata salvata, insieme alle foto di quando era ancora sulle mura del Ferri. Qui sono contenuti anche alcuni macchinari utilizzati all’interno del manicomio, le camicie di forza, i plastici degli edifici e tanti altri cimeli interessanti. Il museo era aperto solo in occasione della visita (chi volesse visitarlo in autonomia dovrà richiedere un permesso all’Asl) ed al suo interno era possibile acquistare anche alcuni volumi, introvabili altrove, come il libro su Nannetti, “Corrispondenza Negata” e tanti altri ancora (tipo “H24” di Alessandro Squilloni). In poche parole, una visita all’ex manicomio di Volterra non è completa se non si passa dal suo piccolo (ma veramente interessante) museo.
Informazioni sulle visite guidate all’ex manicomio di Volterra
Se anche voi siete appassionati di luoghi abbandonati o se vi abbiamo incuriosito con il racconto della nostra visita ecco un po’ di informazioni utili. Innanzitutto vi consigliamo di seguire le pagine Facebook della ONLUS “Inclusione Graffio e Parola” e dell’associazione “I luoghi dell’abbandono”. Qui verranno pubblicati i dettagli riguardanti le visite in programma, che solitamente si svolgono una volta al mese. Per partecipare dovrete inviare una e-mail, specificando l’orario che preferite, ed attendere la conferma. Assieme a questa riceverete anche la liberatoria da portare firmata e da consegnare prima dell’inizio della visita. Il ritrovo è presso un gazebo che viene allestito per l’occasione nel parcheggio dell’Ospedale Civile di Volterra.
Camminerete all’interno di edifici abbandonati, quindi un abbigliamento che non lasci troppa pelle scoperta e scarpe chiuse sono preferibili. Il costo è di 15€ a persona che includono, insieme all’ingresso, 2 ore di tour guidato ai padiglioni dell’ex manicomio di Volterra. La cosa ancor più bella è che i soldi che pagherete saranno destinati principalmente ai lavori di salvataggio del celebre murales di NOF 4. Soldi raccolti per una buonissima causa insomma. Se un giorno l’opera diventerà ancor più famosa sarà anche grazie a voi! Ma dopo essere stati al museo non andate via, l’ex manicomio di Volterra riserva altre sorprese…
Gli altri luoghi abbandonati di Volterra
Chi non è ancora sazio di luoghi abbandonati sappia che una volta terminata la visita guidata è possibile girare in autonomia. Ed è proprio a questo punto che potrete scoprire da soli altri due importanti luoghi dell’ex manicomio di Volterra: la serra dove i degenti coltivavano le stelle di Natale ed il reparto di neurologia. Chiedete alla guida o alla “biglietteria” la strada per arrivarci.
Così, in intimità con gli edifici abbandonati e la natura selvaggia, abbiamo vagato nella parte meno conosciuta del manicomio. Della serra ormai non resta più niente, se non qualche foto di come era un tempo, mentre la neurologia è un luogo senz’altro da vedere (anche da fuori). Per raggiungere questo reparto dovrete passeggiare lungo un inquietante ma splendido viale che vi accompagnerà fino al padiglione che lo ospitava. Quest’ultimo è di costruzione più recente, ma anch’esso giace completamente abbandonato.
Ci siamo poi allontanati dai padiglioni che avevamo visitato, percorrendo il Viale del Teatro ed imboccando poi una strada senza nome. Ad ogni passo un nuovo edificio ormai privo di vita. Reparti del manicomio di Volterra che poi hanno ospitato dipartimenti vari dell’ospedale, centri di riabilitazione ed attività di vario tipo, fra le quali abbiamo scovato perfino un benzinaio abbandonato. Alla fine della strada abbiamo trovato un enorme complesso che visto dall’alto ha la forma di una M (era stato costruito durante gli anni del fascismo in onore di Mussolini). L’edificio è stato abbandonato in tempi più recenti, ma adesso tutto è lasciato all’incuria più totale. È proprio proseguendo da qua per un altro chilometro che troverete il cimitero del manicomio San Finocchi.
Continuando a girovagare ci siamo imbattuti anche in una tomba etrusca. La zona che ospita l’ex Manicomio di Volterra, infatti, era una necropoli e questo fatto rende ancor più difficile un possibile recupero degli edifici. Iniziando a scavare chissà cosa potrebbe venire fuori! Naturalmente sarebbe bello sapere che un futuro per questi edifici è possibile, ma capiamo le difficoltà che ciò comporterebbe. E se non si riesce a salvare la meraviglia del Castello di Sammezzano siamo consapevoli del fatto che le speranze per l’ex manicomio di Volterra siano ridotte ai minimi termini.
Vi portiamo anche in Australia a visitare un’intera città fantasma: la Ghost Town di Gwalia!
Perchè visitare il Manicomio di Volterra?
Vi consigliamo di cuore questa visita se volete conoscere una realtà diversa attraverso le dolci ed appassionate parole di chi crede ed ha sempre creduto in questo progetto. Se quello che cercate è solo un luogo abbandonato, dove scattare due fotografie, troverete di meglio altrove. Partecipate, con rispetto, ve ne preghiamo, per restaurare la memoria e la dignità di chi qui è vissuto e non ha avuto la fortuna di lasciare un ricordo.
Peccato assistere a due signori di una certa età abbandonare la visita indispettiti perché volevano vedere di più, fotografare di più, entrare in più stanze, ci ha lasciati veramente con l’amaro in bocca. I due signori erano forse troppo fiduciosi nel genere umano. Un ospedale abbandonato da 30 anni doveva forse contenere ancora reperti e cimeli in perfetto stato di conservazione? Si è a malapena salvato il graffito di NOF4, figuriamoci tutto il resto! Loro di certo di umanità ne hanno mostrata ben poca e ci spingono dunque a lanciarvi questo messaggio…
Questa visita ci ha fatto fare la conoscenza di fatti e persone che ci hanno scaldato il cuore ma, cosa ancora più importante, ha risvegliato in noi la voglia di conoscere, sapere ed informarci su tutto l’universo legato al Manicomio di Volterra e a questa parentesi della storia italiana. Aver conosciuto Fernando, Aldo, Andrea, le guide ed i volontari di “Inclusione Graffio e Parola” e “I luoghi dell’abbandono” è stato un vero onore e se la dignità umana ha un senso è per persone come loro. A questo breve elenco, al quale mancano tanti nomi, vorremmo aggiungere almeno quello di Simone Cristicchi. Nella sua canzone “Ti regalerò una rosa” ha cantato le parole perfette per la conclusione di questo articolo e vorremo che le ascoltaste perché sono la poesia più profonda e sincera che abbiamo mai sentito sul mondo dei manicomi
Sono capitata all’ospedale di Volterra per andare a trovare una persona cara ricoverata e sono stata colpita da l’atmosfera. Incuriosita dal luogo insolito, ho cercato informazioni e sono incappata sul vostro sito. Grazie a tutte le persone che hanno lavorate a questo sito: è stato molto importante e pacificante mettere delle parole – anche violenti, una storia – anche dura, sulle forti emozioni scatenate dal luogo dove vivono ancora tutte queste anime che non trovano pace.
Grazie mille per questo commento, non sai quanto ci faccia felici ❤️. Anche perché capisce appieno l’intento del nostro articolo: volevamo far scoprire quei posti non come mera attrazione turistica ma come un luogo che tutt’ora tramanda storie (quasi mai belle) e emozioni che tutti dovrebbero ascoltare. Perché posti del genere non vanno dimenticati così da non farli mai più esistere.
Sinceri complimentissimi, davvero un bel resoconto che unisce sapientemente dati storici e suggestioni emotive, con ottimi spunti di riflessione, un saggio effetto di amplificazione dell’intento delle due associazioni coinvolte.
Grazie anche per gli apprezzamento sulla mia performance di NOF4
Che bello ricevere un commento così bello da te. Siamo noi che dobbiamo farvi i complimenti per le grandi cose che state facendo! State tenendo vive delle storie fantastiche che altrimenti si perderebbero nel tempo. Continuate così!
P.S.: spero che la gamba sia guarita del tutto.
grazie per esserti ricordat* della gamba! Si comunque sto molto meglio e non c’è più l’armatura … anche se devo ammettere che a NOF stava bene ed aumentava l’effetto suggestivo 😉
I nostri complimenti, ragazzi, perché sapete raccontare sempre emozionando, e perché raccontate di questi luoghi dell’anima! Non è da tutti, e lo dico sinceramente. Bravi!
Cavolo…è difficile rispondere a questi commenti ragazzi! Perché se vi avessimo davanti vi abbracceremo forte, ma purtroppo possiamo solo scrivervi GRAZIE MILLE per lo splendido complimento ❤️
trovo questa vostra descrizione della visita, naturalmente ben fatta e interessante, piena di delicata umanità.Si avverte il grande affetto per la memoria di questi malcapitati che, almeno nella mente, escono per un attimo dal loro numero per ridiventare persone. Molto colpita, a novembre farò questa visita e potrò abbracciare la loro memoria
Senza l’opera di Nannetti ed il lavoro incessante di Aldo Trafeli e di chi dopo di lui ha combattutto per restaurare questa memoria oggi probabilmente non resterebbero altro che numeri. Ma quei numeri sono stati persone, private della propria dignità, ed alle quali ci sentiamo in dovere di ridare almeno un po’ di attenzioni e comprensione. Sicuramente questa visita non ti lascerà indifferente!